sabato 12 novembre 2016

Tonino Guerra, poesia dialettale



Sòura un cafèlatt

Andéma t'un cafè dla pora zénta
in do ch'i zènd i furminènt te méur
a fè do ciacri sòura un cafèlatt,
a déi ch'l'è chèld, ch'l'è bón, che fa par néun.

Sòta di lóm ch'l'è mélarènzi ròssi,
lòt, lòt, lòt, cmè bés-ci da mazèll,
andéma a fe do ciacri t'un purtòun
e géma ch'a s vlém bén, ch'l'è béll, ch'l'è tótt.

martedì 2 agosto 2016

Casa-museo di Giorgio Morandi

Dieci minuti a piedi. Sempre dritto per via Orfeo e svoltare a sinistra una volta arrivati davanti ai murales dell'ex caserma Masini occupata da Làbas: via Fondazza 36.
Il portone è chiuso, c'è un vecchio batacchio che non riesco a decidermi di bussare, poi ripiombo negli anni duemila, cerco e trovo un citofono (non che ai primi del '900 non esistesse già).

Tutto è tenuto al sicuro dietro teche di vetro. Vedo le bottiglie, l'una stretta all'altra, uniche donne della sua vita, oltre a quelle di famiglia. Sensuali madonnine sagomate. Lunghi colli che ti aspetti possano inclinarsi all'improvviso da un lato, a squadrarti di rimando, e poi giù, imponenti curve, grossi fianchi matriarcali. C'è chi ci vede la Vergine del polittico di Piero della Francesca, io, in tutta onestà, scorgo molto più Modigliani.
Essenzialità, pudore delle forme semplici. Morandi concepiva quadri che ancora non avevano tela sul cavalletto, aprendo e chiudendo gli scuri, studiando come appaiono le cose quando se ne stanno immobili e si lasciano accarezzare inermi dalla luce. Una volta trovata la disposizione, con la matita, dei suoi soggetti ne contornava le basi sul tavolo e lo stesso faceva ai suoi piedi, a terra, per ritrovare, sostituita la mina col pennello, l'esatta angolazione di sguardo.
Conto i giorni per potermi trovare a Grizzana, sull'appennino bolognese, e vedere ciò che oggi ho avuto davanti anche attraverso gli occhi di Luigi Ghirri, di cui sono follemente innamorata.





venerdì 1 luglio 2016

Mi ero messa in testa di non scriverci più. Non ho mai veramente smesso di sentire le dita doloranti, macchiare le pagine bianche e il lato della mano d'inchiostro.
Il tavolo è sempre pieno di fogli e quaderni. La mia calligrafia sismografica compone grovigli che non son fatti per essere pubblici, perché questa matassa è delicata e, se me la stracciate, potrei rimanerci secca.
Ma un'amica, una sorella, anche la voglia di aprirsi tutta è riuscita a lasciare. Mi butto, ché fa bene. Lascio scorrere e non ci penso, però parlo a te, Sara.
L'ho attraversato il ponte della Parma che porta verso casa; un passo dopo l'altro cercavo di seguire le orme segnate dai tuoi e ti ho immaginata correrci sopra a perdifiato, come la prima volta che mi ti sei presentata davanti, proprio a fine giugno di otto anni fa, l'ho detto l'altro giorno con la voce che tremava: "zaino in spalla e capelli al vento". Ho oltrepassato più e più volte ciò che rimane della secca del fiume con le braccia incrociate, aggrappandomi stretta alla maglietta che avevo addosso, tirata fuori da quel tuo personalissimo e poetico disordine che a stento anche lui può esser chiamato monolocale.
Sei rimasta lì dentro, ciascun oggetto sussurra piano il tuo nome e arriva dritto al cuore e dritto all'intestino, quel cervello addominale che a volte dicevi anche tu di non riuscire a sentire più. Fa male.
Il volersi a tutti i costi spiegare e non riuscirci provoca una morsa di uguale intensità, sono vocaboli ed espressioni che escono senza la pretesa di essere capiti, va a finire che suonano presuntuosi oppure, presuntuosa, lo sono io, che insisto tanto. È un tentativo disperato, già perso in partenza. Come si può? Un modo, anche qui, me l'avresti certamente indicato e, quando c'eri tu a tendere la mano, poi tutto andava come doveva essere.
Mi giro a guardare i piedi del letto e fatico a credere che questa sera o domani non starai seduta sul pavimento a ridere; era in uno di questi momenti che te l'ho detto, di volerti bene. Sulle piastrelle in cotto avevi lasciato le impronte dei palmi e ti avevo spinta a disegnarci sopra le linee del destino per sceglierti da sola la tua vita felice; ora sale un brivido, ma nessuno può farmi recedere dal pensare che, felice, tu lo sia realmente stata, nonostante tutto.
È piena estate, aria calda e sole che tramonta; la luce attraversa il vetro del barattolo vuoto che a San Giovanni ti avrei chiesto di aiutarmi a riempire. Lo farò l'anno prossimo. Là fuori, stranamente, qualcosa è ancora bello, qualcuno non ha proprio mai smesso di esserlo, neanche un istante.
Quell'uscita rimandata e poi rimasta sospesa, allora, la spenderò con loro.
Andremo a prendere l'aquilone, il pescecane Gabri ha detto che è salvo, i 3 baiocchi sono qui al sicuro e, tu, sempre e per sempre. "Noi si va!", continuiamo, sul fondo di ogni strada fai ancora cenno.

mercoledì 23 marzo 2016

Focarina di Marzo «Non culto delle ceneri, ma custodia del fuoco»

È ridicolo quanto l'arrivo della bella stagione possa influire sull'umore.
Chiamasi meteoropatia.
La vecchia pandina Fiat è pronta ancora una volta, compagna di viaggi, e aspetta di farsi montare l'autoradio nuova, ché i cd da ascoltare son tanti; per il momento si canta stonati senza musica di sottofondo.
L'inverno quest'anno l'abbiamo salutato a Santarcangelo di Romagna, durante la festa della fogheraccia, davanti al Museo Etnografico e le parole di Mario Turci.
Quando il sole se n'è andato e ha lasciato spazio al buio e una mezza luna, accatastiamo ceppi e parti di sedie e mobili. Si alza un odore dolciastro.
Il fuoco brucia sul viso, già caldo e arrossato per i bicchieri di vino rosso, e scoppietta lanciando in aria la cenere incandescente. Più in là c'è la musica dal vivo che dà da ballare e ballano tutti bene. La voglia di buttarsi nella mischia è tanta, sono felice.
Senza farmi scoprire guardo lui e poi lei, parente acquisita ma soprattutto amica, che mi ha aperto un mondo e, per questo, la ringrazio.

E ringrazio anche gli organizzatori dell'evento, che sono i ragazzi di AmarMET.



martedì 16 febbraio 2016

Fenomenologia del doppio (in una vuota serata di pioggia, si intende)

Ultimamente alle prese con un grande tomo di fotografia e un lavoro che non vuole saperne di essere concluso.
Tra le righe fitte, Jean Baudrillard sostiene che i ritratti fotografici siano esorcismi, allo stesso modo in cui lo erano le maschere catartiche per le società primitive.
Cerco tra le tante immagini quella che penso si avvicini di più alla sua frase.
Ricordo il momento in cui è stata scattata, non molto distante, e ricordo il motivo.
Cosa ci sarà mai da espiare dal volto di una giovane donna?
Era solo un gioco, è vero. Mascheramento, radicale intima alterità. La fisionomia è quella, ma traspare qualcosa di diverso nel modo di porsi; l'elusione riguarda solo le cose mal tollerate, per questo non è strano provare per lei una sorta di invidia.
Solo metà viso fa capolino, ma c'è caso che della mia vera personalità non ce ne sia la minima traccia, che sia tutta rimasta fuori dai margini; allora vedrò poi di raccoglierla, perché, malgrado ogni cosa, non ho intenzione di fingere d'esser altro anche qua fuori.

domenica 31 gennaio 2016

Forse solo un delirio retorico

Ci sono giornate durante le quali non si apre bocca, se non per rispondere a monosillabi a qualche domanda, perché si pensa di non aver niente da dire.
Eppure non si sa che cosa si ha da dire finché non si comincia a dirlo, ed è proprio il momento in cui si comincia a parlare che decide di quello che si dirà.
Eh, quest'ultima frase è di Nicola Chiaromonte.
Lui è stata una delle mie ultime grandi scoperte. Diceva bene il libraio della bancarella che mi ha venduto Che cosa rimane. Si è raccomandato che un libro così non merita di esser sfogliato due pagine per poi finire dimenticato sugli scaffali a prendere polvere; in tal caso mi ha pregato in anticipo di riportarglielo, dicendo che mi avrebbe reso indietro anche i 15 euro spesi.
Data la premessa, non ho voluto neanche la bustina per portarlo via, me lo sono tenuto stretto al petto fino al portone di casa.
Ora sono nascosta dietro a un paio di occhiali rotti, aggiustati con lo scotch.
Le lenti si appannano quando finisco l'ultimo sorso dalla tazza che ancora scotta e sul fondo intravedo il mio riflesso deformato. I miei due occhi mi guardano e io ricambio, amorevolmente. Chi non si dà mai un bacio allo specchio?!
Non c'è niente di male a volersi ascoltare di più e da adesso accetto anche i pensieri folli, propri di chi è fresco di letture e visioni sbagliate.
Il peso di queste idee lo lascio alla serie di mensole storte, attaccate al muro in modo preoccupante, su di me lo lascio scivolare, non ho più bisogno di mordermi le labbra.
Trovo me stessa nell'utilità dell'inutile, nella poltrona vuota di un cinema che vado a riempire o nel solito posto a sedere dell'autobus, nello spicchio di cielo che è possibile vedere dalle sbarre di ferro dell'unica finestra qui nella casa in affitto, e mi basta.
Ma sotto questa finestra continuo a sillabare parole ad alta voce e come sempre il suono esce un poco incrinato, offeso per la poca importanza che solitamente gli do.
Dopo tutto questo prestarsi attenzione, dei concetti afferrati bisognerebbe farne dialogo.
Però ecco, a proposito, è venerdì sera e chi se ne frega dell'introspezione. Thomas si è già vestito e io metto su un sorriso sincero, ché fuori ci aspettano.

domenica 24 gennaio 2016

Rovine, passaggio al contrario della vita

Tira giorno da questi due vetri che non regalano mai l'alba.
Al buio faccio mucchietto con le briciole dei biscotti e, mentre spolvero con gesto assente e automatico, pulisco anche quella caliginosa soffitta che è la mia testa. Un'oretta, prima di farmici scendere sopra un altro tipo di pulviscolo, materiale.


Un grande organismo rantola faticosamente.
Gabriele Basilico vedeva invece, la città, come un corpo che respira.
Davanti, lo stato di abbandono di costruzioni e opifici, regrediti ad anonimie geografiche.
Una macchina fotografica può forse sfruttare in senso lirico questi luoghi infernali e fantasma, lascio dunque trasparire il senso di appartenenza che qualcuno ha ancora nei confronti di questi spazi liminari, paesaggi che hanno assunto le trasformazioni - che su di loro sono ferite - del processo storico a volte estraneo a questi edifici/palcoscenici, i cui sipari anche allora son rimasti chiusi a nasconderne gli attori.
Una sola mossa può incaricarsi di riscattare il presente a partire dal passato, saldando il divario creatosi tra queste due temporalità attraverso una serie di immagini, esigenze che legano alla cosa ritratta. Il sentimento d'amore e la rabbia per questi posti interiorizzati, posti che sono soprattutto altrui ricordo, prendono corpo e prenderanno poi corpo su una stampa baritata o politenata che sia, da regalare. Dentro l'architettura di muri scrostati e scalcinati, quando più nessuno è attorno, il silenzio si fa grido, che il vuoto e la sua eco amplificano, e la mia apparente quiete credo risuoni altrettanto forte.